Si dice che è meglio non dare troppa confidenza alla gente, perché altrimenti “prende il dito con tutta la mano”. Lo stesso discorso può valere in amore, e non parlo esclusivamente di una relazione monogama, ma anche di amore familiare, o verso i propri amici più cari. Del resto, si ama anche quando non ci sono più motivi per farlo. Donne che continuano ad amare i propri ex mariti nonostante le abbiano tradite, umiliate e lasciate, o fratelli che non riescono ad odiare le proprie sorelle nonostante abbiano tradito, nel modo più scorretto e cattivo, la loro immensa fiducia. Spesso sono le persone che più amiamo a farci del male. Perché l’amore è fatto di aspettative, dimostrazioni reali e concrete, che spesso e volentieri restano carta stampata. E quindi, perché continuo ad amare una troia di quart’ordine che ormai anni fa ha risucchiato tutto il mio puro amore, tradendomi e umiliando la mia dignità? Oppure, perché non riesco ad odiare colei che meriterebbe solo di essere sputata in faccia per aver tradito, nel modo più meschino, tutta la mia fiducia nei suoi confronti? E la risposta, secondo i miei spiccioli, filosofici, pensieri, è che l’amore non è presente, ma un accumulo di emozioni e momenti passati condivisi. E’ quindi roba passata, talmente grande da continuare ad essere presente nel nostro quotidiano, e destinata a far parte del nostro futuro, dentro di noi. Un po’ come quando sei lontano da casa per tanto tempo, e pensi ai bei momenti familiari, custodendo tanta voglia di riviverli, per poi ritornare, emozionarti il tempo di smaltire la mezz’oretta di euforia iniziale, e scoprire che è come se non te ne fossi mai andato. Che tante cose sono rimaste lì, negli archivi di Skype, Facebook, perché tanto l’amore è talmente scontato da non aver più bisogno di essere dimostrato. Sono pienamente consapevole di aver scritto critiche tanto indirette quanto ben precise, ma l’ipocrisia non fa parte di me, e parlo sempre in funzione dell’oggettività che vedo. Chi ha il coraggio di biasimarmi?
P.S.: parole di ventenne.
Essere troppo scontenti di se stessi è debolezza. Essere troppo contenti di sé è stupidità. Devo confessare di nutrire un’ammirazione di lunga data per il grande filosofo, scienziato e credente francese Blaise Pascal. Lessi i suoi Pensieri già in liceo: eterogenei, frammentari, diseguali, eppure attraversati da folgorazioni uniche. È noto che egli amava il convento di Port-Royal ove era suora sua sorella Jacqueline, ed è pure conosciuto il suo orientamento giansenista che anche in quel luogo si coltivava. Là si ritirò, dopo la sua crisi religiosa e l'”illuminazione” del 23 novembre 1654. Là si ritirerà anche una donna bellissima, un’intellettuale che Pascal aveva già conosciuto nel salotto da lei tenuto a Parigi: era Madeleine de Souvré marchesa di Sablé (1599-1678), amica appunto di Pascal e di un altro pensatore, La Rochefoucauld. È a madame de Sablé che oggi sono ricorso per una riflessione su un tema da lei suggerito in un suo scritto. È un’esperienza abbastanza frequente. Incontriamo persone permanentemente scontente di sé e della vita, insoddisfatte in modo sistematico, deluse, tristi, amareggiate e fin sconfortate. Il loro stesso viso assume i tratti della loro anima pessimistica. Ma c’è anche chi è sereno nella sua beceraggine, fin sbruffone nell’ostentare la sua superficialità e vacuità interiore. Raggiungere l’equilibrio nella capacità di giudicare il bene e il male che sono in noi e negli altri e, quindi, essere realisti e oggettivi, sceverando grano e pula, è un esercizio necessario. Purtroppo, come diceva Oscar Wilde, ironico scrittore inglese, «l’equilibrio è una cosa fatale; nulla ha più successo dell’eccesso».
(…ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale!)
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