E’ una domenica pomeriggio come tante altre. Una di quelle domeniche in cui ci si sveglia tardi, con la lingua che ha ancora il sapore della vodka del sabato sera, e ci si rilassa a casa, magari in pigiama, tirando le somme di un’ennesima settimana giunta al termine.
Navigando sul web ho trovato un video. Dopo aver premuto play mi sono ritrovato davanti a Jonah, un’anima triste, vittima di questo mondo. Vittima di persone, come lui. Uguali a lui. In un mondo fatto di finzioni, dove a governare c’è una finta democrazia, con una società che fa finta di predicare l’uguaglianza, quasi fosse una moda dire di accettare tutti coloro che, per caratteristiche unicamente personali, vengono definiti “diversi”. Ma, per citare un film italiano con Luca Argentero di qualche anno fa, diverso da chi? Chi è l’essere “normale” in base al quale vengono definiti i “diversi”? E, soprattutto, abbiamo davvero la presunzione di definirci normali in un mondo che, a detta di tutti, è bello perché vario? La video-confessione di Jonah è stata per me un colpo al cuore, un pugno allo stomaco, un nodo stretto alla gola. Un ragazzino di appena tredici anni, prossimo all’eight grade (la nostra terza media), che ha paura di ritornare a scuola. Perché solo. Perché vittima di bullismo, con conseguente violenza fisica e, peggio ancora, morale. Un ragazzino di appena tredici anni, che confessa di aver pensato al suicidio come ancora di salvezza per uscire da tutto ciò. Jonah mi ha commosso, per la sua forza e il suo coraggio che l’hanno portato ad aprirsi al mondo intero, spiattellando sulla faccia di tutti quelli che gli stanno intorno la sofferenza che gli hanno causato, dimostrando che non si è mai troppo giovani per commettere un reato proprio come tutti gli altri punibili a norma di legge, ed esserne vittime. Se potessi lo abbraccerei, fortissimo, gli asciugherei le lacrime, e gli direi di essere forte, di seguire la sua strada senza farsi toccare dalla cattiveria della società, perché, come ognuno di noi, è bellissimo nella sua unicità. E un giorno, tra qualche anno, ringrazierà Dio di aver vissuto tutto ciò, perché sarà un uomo forte in un mondo di deboli giudici.
Siamo alle soglie del 2012, e mi ritrovo a parlare di bullismo e omofobia, a dimostrazione che ci sono ancora tantissimi grandi passi da fare. Ma, del resto, come si può pensare di abbattere l’ignoranza della società quando sono in primis i genitori a non inculcare alle loro bestie l’uguaglianza delle diversità? Come nel film “Mine Vaganti”, ci sono addirittura genitori che sbattono fuori di casa i figli perché omosessuali. Come se un personale orientamento sessuale possa compromettere un’intera vita trascorsa insieme fatta d’amore. La parola è un’arma tanto facile da usare quanto letale. Nessuno di noi può negare di aver commesso atti di discriminazione, in qualsiasi modo, grandi o piccoli che fossero, nella sua vita. Ma allo stesso modo, in un mondo che vendicativamente gira, nessuno di noi può negare di essersi sentito come Jonah. Almeno una volta nella sua vita.
Bianchi, neri, eterosessuali, omosessuali, bisessuali, transessuali.
Siamo esseri umani, o prodotti da etichettare?
Vergogniamoci, e impariamo l’ABC della vita. Perché non c’è laurea o qualifica che tenga di fronte al più grande atto d’ignoranza che l’essere umano possa compiere: la discriminazione.
Jonah, un ragazzino di appena tredici anni.
Che ha un milione di motivi per essere qui.
“Non sto per uccidermi. Ho solo bisogno di cacciare tutto questo fuori.”