Punto e da capo.

Non trascorrevo un weekend come questo da tempo. Più di un anno. Ne ho ricavato drink (tanti), locali (un bel po’) e tante facce. Volti noti, volti che non vedevo da tempo, volti estranei. Pare che sia questa la celebrazione della libertà, dopo un anno speso ad amare qualcuno. Circondarsi di volti, sorrisi, brindisi, finché le luci diventano soffuse, caotiche, e ci si ritrova abbagliati dalla luce del mattino, in un letto che non ci appartiene. E ci rendiamo conto di essere single. Soli, in balia di noi stessi. E non conta più quello che abbiamo fatto, o chi abbiamo amato in passato, perché siamo a punto e da capo.

Come un tempo c’era il buon senso della fiera della vanità, oggi prevale la fiera della felicità. Un’ostentazione di sorrisi e spensieratezza, quasi una gara a chi va avanti per primo. L’amara verità è che nessuno va avanti. Passano i giorni, finiscono i drink, gli amici tornano a casa, i letti che non ci appartengono diventano un ricordo offuscato. Resta un gran mal di testa, e i fantasmi con cui fare i conti quando torniamo nel nostro letto. Da soli, sotto le lenzuola, con i ricordi che diventano ossessivi e prepotenti. Un fermo immagine che non ci lascia in pace.

E non ci resta niente di quel weekend da leoni. Se non un conto notevolmente diminuito, e l’effimera convinzione di stare andando avanti. Per aver brindato spensieratamente. Per aver baciato altre labbra. Per aver toccato altri corpi. Mentre il tabellone resta fermo sullo 0 – 0.

Non ci sono vincitori, né perdenti. C’è solo solitudine, mista ad una errata concezione di “voglia di vivere”.

Ci risveglieremo domani. Inizierà un’altra settimana. Ci sarà un altro weekend.

E saremo di nuovo punto e da capo.

Come una rosa rossa.

Una pizza Ristorante Cameo al salame e una Pepsi. E una pila di libri. E’ sempre un colpo al cuore lasciare casa dopo un lungo periodo, specialmente se quest’ultimo è stato memorabile. Rimpiangevo la magia natalizia dell’infanzia, e l’ho rivissuta, con i miei genitori, le mie sorelle ed i miei migliori amici. Con una grande amica ritrovata, dopo sette lunghi, stupidi mesi. Con la bomba di fine anno, che mi ha fatto amare mia madre più di quanto non lo facessi già immensamente. Con quegli amori passati, che le prime ore del 2012 mi hanno piazzato davanti agli occhi, facendomi capire che sì, il nostro tempo è passato. Non provo più nulla per quei tempi. Sono rimasti soltanto i ricordi, che invecchiano sempre di più, tanto da non riuscire più a dargli peso. Ed ora il mio cuore è come se fosse stato formattato, nuovo di zecca. E ricordo l’emozione di un bacio. Un bacio atteso, a tratti sudato. Passato. Il primo bacio, ma anche l’ultimo bacio. Con un perché, o forse più di uno. Non avevo mai provato un’emozione così piccola ma così forte. Ed era un’ingenua attrazione a spacciare tutto per speciale, dentro di me, che forse volevo tutto e subito. Che forse speravo in un piccolo futuro che non ci sarebbe mai stato. O forse, era semplicemente il mio momento. “Che stupidi che siamo”, recita Stefano Accorsi in “Le fate ignoranti”, per aver respinto e spento tante fiamme pronte ad alimentarsi. Poi passano i giorni, e tra mille distrazioni quel pensiero persiste, e dentro di noi pensiamo che non ci sia più nulla da fare. Magari convincendoci di dover lasciar perdere perché era un bacio, e solo un bacio. Ma dietro alla semplicità di due volti che si uniscono, anche solo per un secondo, possono esserci tanti battiti cardiaci, tanti brividi lungo il corpo, tante farfalle nello stomaco. E tante emozioni. Anche se di quelle labbra conoscevamo soltanto il nome, e di quel corpo solo la bellezza esteriore. Come una rosa rossa, bella, bellissima. Ma inevitabilmente destinata ad appassire.